Essenziale e psicologico, visionario ed elegante. Il Macbeth in scena sino al 5 febbraio a Trieste, firmato da Henning Brockhaus ha, si sa, molti punti di forza per un regista che dà una lettura psicoanalitica del capolavoro di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave.
Rende quanto mai viva un’opera che mette sapientemente in musica la celebre tragedia di Shakespeare. Segue e calca la strada già indicata dal compositore di Busseto che, con un coraggio incredibile per i tempi in cui la scrisse, rende il Macbeth unico nel panorama italiano e al tempo stesso fa di questo titolo un’opera spesso poco rappresentata, difficile da cantare per quello stile del “recitar cantando”, fatto di declamazioni cupe e drammatiche, sussurri e continui cambiamenti espressivi.
La ripresa, a 10 anni di distanza, dello storico allestimento mostra quanto contemporaneo ed eterno sia questo capolavoro, la cui conduzione è affidata a Trieste alla bacchetta attenta ed esperta del maestro Fabrizio Maria Carminati e alle splendide voci in scena. Il soprano Silvia Dalla Benetta (Lady Macbeth) e il baritono Giovanni Meoni (nel ruolo del titolo) brillano per vocalità, intensità espressiva e capacità interpretativa, dando vita a tutte le intense sfacettature della coppia criminale. I due protagonisti, lungamente applauditi dal pubblico alla prima, sono solo la punta di diamante di una compagnia di canto di notevole qualità – tra cui incassa notevoli applausi anche il tenore Antonio Poli nei panni di Macduff- capace di entrare nel pieno del progetto artistico e, assieme all’orchestra e al coro, a condurci dentro l’abisso oscuro della psiche umana imprigionata tra Eros e Thanatos.
Ma a Trieste il Macbeth riserva anche una sorpresa al pubblico. Offre una versione ancor più coerente, matura e onirica del lavoro del regista tedesco (che fu allievo di Giorgio Strehler) per la capacita di evolvere il suo stesso progetto drammaturgico. Partendo dal fatto che la musica è un linguaggio simbolico che esprime la nostra vita emotiva, Brockhaus spoglia ancor più ed enfatizza il carattere essenziale dell’opera verdiana lasciandone intatto lo spessore drammatico ed emblematico. Si ispira alle atmosfere del “Trono di Sangue” di Akira Kurosawa per fare una riflessione sui nostri lati più oscuri e priva re e regine, dame e cavalieri dei loro brillanti orpelli per renderli simboli assoluti dei demoni interiori.
In linea con la sua estetica si pongono le scenografie visionarie di Josef Svoboda, scomparso nel 2002, riprese da Benito Leonori, che definiscono lo spazio con pannelli mobili e leggeri che sembrano di carta goffrata, su cui si proiettano a tratti boschi e teschi, luci simboliche e fantasmi insanguinati emergenti da specchi improvvisi. Anche l’assenza di colore con il predominio del grigio su cui si staglia, a tratti, un rosso color sangue rimarca la poetica del regista nel creare un Non-luogo, reale e irreale al contempo, abitato da allucinazioni e visioni, fantasmi e streghe.
Anche i costumi di Nana Cecchi seguono e integrano compiutamente le linee registiche, con abiti per lo piu monocromatici dal sapore nipponico mentre le coreografie di Valentina Escobar, privata dei ballabili non inseriti in questa edizione, mette in evidenza la compresenza delle due anime, quella terrena e quella impalpabile del mistero, affidandole da una parte ai movimenti del coro di streghe e dall’altra a movimenti di acrobazie aeree.
L‘ effetto complessivo dello spettacolo è di grande equilibrio ed eleganza. Lo spettacolo si colloca felicemente fuori da ogni naturalismo o realismo, lasciando ampio spazio libero alla musica e alla sua capacità di scandagliare non solo gli abissi dell’anima ma anche la crudeltà che, per Brockhaus, nasce dalla noia e dall’ingordigia per il potere, capaci di trasformare l’essere umano in veri killer.
Lo spettacolo è coprodotto da Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi e Fondazione Giuseppe Verdi di Trieste.