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Ha trascinato il pubblico sull’onda della follia musicale che prorompe dal suo stile inconfondibile. Goran Bregovic ha regalato, ieri sera al teatro Rossetti di Trieste, un’ altra grande serata all’insegna della sonorità, della cultura balcanica e della sua genialità d’artista. Nato a Sarajevo, sessantanove anni fa (ma non li dimostra) la sua musica è l’inno di una cultura che risente delle influenze di una città di frontiera, punto di incontro tra ortodossi, cattolici, ebrei e musulmani. Ma questa volta lo fa programmaticamente. Parla ai popoli, infatti, il suo ultimo lavoro, dal titolo “Three Letters from Sarajevo”, fulcro del programma della serata, dove la città natale diventa metafora dei nostri tempi, un luogo dove prima ci si parla e poi ci si fa la guerra. E le lettere sono le lettere musicali indirizzate da Bregovic ai profeti delle tre grandi religioni monoteiste che per secoli si sono scontrate in Europa. Narratore essenziale, sul palco si limita a qualche breve battuta, durante la serata Bregovic lascia parlare le sue ultime composizioni. Anch’esse, dietro l’apparente spontaneità ritmica, si rivelano sofisticate e con una struttura compositiva piú complessa di quel che appare al primo ascolto. Brani che raccontano la reazione della gente davanti a un conflitto che intendeva piegare un popolo, eseguiti principalmente per violini, strumento che unisce le tre culture, suonati via via in modo diverso, secondo la tradizione occidentale, klezmer e orientale. Sono brani ricchi di storia che attingono alle radici musicali popolare. Accompagnato come di consueto dalla sua “Wedding and Funeral Band” – formazione di diciotto elementi, corali e orchestrali – in oltre due ore ininterrotte di concerto, l’intera band si è esibita esprimendo con assoluta naturalezza un repertorio musicale tutt’altro che semplice. L’emblema della “balcanità” non solo ha suonato e diretto (basta un semplice e semplice cenno tanto è forte il felling con la sua orchestra) ma, piuttosto, ha celebrato una festa che è un omaggio a tutti i popoli. A sottolinearlo anche, fin dall’inizio, l’entrata a sorpresa degli ottoni dal fondo della platea, come nella migliore tradizione musicale che nasce per la gente e tra la gente , e poi i molteplici bis tra cui appare anche la sua versione di “Bella ciao”. Bregovic si continua cosi ad essere tra i pochi musicisti che riescono a far convivere una grande varietà di suoni e tecniche, senza perdere la coerenza del proprio stile, e a parlare alla contemporaneità delle genti, senza limiti e confini. Solo una cosa l’artista bosniaco teme, e lo consegna quale monito al suo pubblico. Teme quei muri della mente che sono più duri dei muri reali.
Foto di S. Di Luca.
Scritto da: Monica Ferri
Goran Bregovic Tree letters from Sarajevo
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